domenica 15 febbraio 2009

Studium e punctum in Roland Barthes: il cinema

Roland Barthes ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla fotografia: personali, commuoventi, dallo stile così asciutto ed equilibrato che alle orecchie sembra il sussurro di una confessione d'anziano, meditata e segreta. Uno dei suoi più importanti apporti teorici è senza dubbio quello della teoria dello studium e del punctum:
«Stavo sfogliando una rivista illustrata. Una fotografia attirò la mia attenzione. Niente di veramente straordinario: la banalità (fotografica) di una rivolta in Nicaragua: due sodati con l'elmetto in testa che pattugliano una strada in rovina; in secondo piano, due suore stanno transitando. Quella foto mi piaceva? M'interessava? M'incuriosiva? Niente di tutto ciò. Semplicemente, quella foto esisteva (per me). Capii subito che la sua esistenza (la sua "avventura") era dovuta alla co-presenza di due elementi discontinui, eterogenei in quanto non appartenevano allo stesso mondo (nessun bisogno di arrivare fino al contrasto): i soldati e le suore». E, come aggiunge, subodorò una regola strutturale.
Dei due elementi «il primo, chiaramente, è una distesa; esso ha l'estensione d'un campo, che abbastanza familiarmente io vedo in funzione del mio sapere, della mia cultura; questo campo può essere più o meno stilizzato, più o meno riuscito, secondo la perizia o la fortuna del fotografo, ma esso rinvia sempre a un'informazione classica [...]. Di questo campo ci sono migliaia di foto, e per queste foto io posso chiaramente provare una sorta d'interesse generale, talora commosso, ma la cui emozione passa attraverso il relais raziocinante di una cultura morale e politica. Ciò che io provo per queste fotografie procede da un affetto medio, quasi da un addestramento. Io non riuscivo a trovare, in francese, una parola che semplicemente esprimesse quella specie di interesse umano; ma in latino, credo, questa parola esiste: è studium, che non significa, per lo meno come prima accezione, "lo studio", bensì l'applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d'interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità. E' attraverso lo studium che io m'interesso a molte fotografie, sia che le recepisca come testimonianze politiche, sia che le gusti come buoni quadri storici; infatti, è culturalmente (questa connotazione è presente nello studium) che io partecipo alle figure, alle espressioni, ai gesti, allo scenario, alle azioni.
Il secondo elemento viene a infrangere (o a scandire) lo studium. Questa volta, non sono io che vado in cerca di lui (dato che investo della mia superiore coscienza il campo dello studium), ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. In latino, per designare questa ferita, questa puntura, questo segno provocato da uno strumento aguzzo, esiste una parola; tale parola farebbe ancora meglio al caso mio in quanto essa rinvia all'idea di punteggiatura e in quanto le foto di cui parlo sono in effetti come punteggiate, talora addirittura maculate, di questi punti sensibili; quei segni, quelle ferite sono effettivamente dei punti. Chiamerò quindi questo secondo elemento che viene a disturbare lo studium, punctum; infatti punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio -e anche impresa aleatoria-. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce). [...] In fondo, la Fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa".
Il punctum esiste quando ci si sente attratti da un particolare, suscettibile di modificare, per la sua sola presenza, la lettura dell'immagine; esso "non si cura della morale o del buon gusto; il punctum può essere maleducato. [...] Lo studium è in definitiva sempre codificato, mentre invece il punctum non lo è mai".
Per quanto Barthes non approvi il cinema, che non lascia spazio alla pensosità citata sopra e conseguentemente al punctum, io provo ad applicare ugualmente la sua teoria -mi auguro senza forzature- al cinema. Il materiale che voglio sottoporre ad esame è da una parte la commedia all'italiana, in particolare i film con Totò e Peppino, e dall'altra i colossal hollywoodiani come "Il Signore degli Anelli". Dei primi ne vedo di continuo, in quanto napoletano; il secondo è una mia recente visione. C'è un dato che accomuna quasi tutti gli appassionati estimatori dei film della commedia all'italiana e specialmente di quelli con Totò e Peppino: "più li vedo e più rido, non mi stanco mai". Alcuni, poi, ammettono di scoprire sempre nuovi sensi o ammiccamenti nelle battute, una espressione mimica che non avevano mai colto prima, il gesto di un attore sullo sfondo, etc. Ciò che accomuna queste affermazioni è il soffermarsi sul particolare come elemento saliente nella costruzione dell'intero personaggio e del film.
Gli attori della commedia all'italiana recitavano a soggetto, perciò l'improvvisazione aveva un ruolo a volte preponderante rispetto alle battute già scritte. Questo significa poco studium e molto punctum. Poiché, infatti, il primo deriva da un altro studere, lapplicarsi attento e pianificatore del regista alle scene che gira, mentre il secondo origina dallimprovvisazione dagli attori, ne consegue che quei film così costruiti colpiscono lo spettatore per mezzo dei puncta, precisamente nel modo descritto da Barthes: subdolo, apparentemente banale e spesso anche differito. Perciò noi solitamente non li cogliamo mentre lo guardiamo, e non di meno essi influiscono su di noi, rendendoci il film più liquido, più ricco.
Al contrario, un film come Il Signore degli Anelli, colossale produzione hollywoodiana, a fronte di un costosissimo e spettacolare carnet di effetti speciali presenta immagini talmente evidenti, talmente palesi da non contenere, ne sono certo, alcun punctum. Ecco, la recita a soggetto, l'arte teatrale della recitazione, è esattamente questo: la linea ripiegata, il labirinto (in questo rispecchia in pieno da qui il suo realismo- la realtà). Ma il computer non può ripiegarsi, sottrarsi allovvietà, allevidenza perché le sue immagini sono interamente programmate. Esattamente come la recita secondo copione. Né potrebbe essere altrimenti, date le scene che debbono essere girate.
Il problema è che tutti i film e i film danimazione statunitensi tratti dalla fantascienza o dalla fantasy vengono realizzati in modo da essere quanto più verosimili è possibile; cercano, in altre parole, di dissimulare la loro assoluta falsità, lo status di finzione che, ereditato dalla letteratura, non accettano di mantenere. E in ciò errano, poiché la fantasia umana non ha più spazio per esercitarsi.

Barthes e l'ascolto dell'immagine

La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi e far parlare l’immagine nel silenzio). La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito bla – bla: “tecnica”, “realtà”, “reportage” ecc.: non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.
(R. Barthes).

lunedì 9 febbraio 2009

Sulla verosimiglianza in fotografia

Non c'è alcun bisogno di ricercare il realismo, la verosimiglianza. La fotografia non ha bisogno di essere realistica, di veicolare l'idea di riprodurre la realtà, perché la realtà è essa stessa una produzione di senso, non è un senso originario. E non vi è alcun significato riferito al mondo al di fuori della mente, ma solo menti che creano un mondo pieno di senso. Perciò, che cosa mai la fotografia dovrebbe rappresentare?
Parlando della fotografia, alcune parole sono sbagliate: concetti come rappresentare o ri-produrre presuppongono un atto originario prima di venire al mondo. Qui sta l'errore.
Al contrario, la fotografia è l'apparizione del nuovo, è dia-phanein, "apparire attraverso", l'apparizione di fantasmi su una superficie sottile o virtuale; è teatro, illusione, sempre finzione.
Essa crea qualcosa di nuovo perfino quando non vorremmo crearla, perfino qualora premessimo accidentalmente il pulsante di scatto della nostra fotocamera. Anche in questo caso l'immagine risultante da un atto involontario mostrerebbe qualcosa che i nostri occhi non hanno visto, qualcosa che non c'era prima in quel posto o in quella scena. Pertanto, la fotografia è aggiunta alla "realtà", e quindi è sempre iper-realistica, una scelta alternativa alle nostre pupille. E' evocazione, etimologicamente una chiamata di ciò che viene da lontano. Una macchina fotografia possiede il potere di un medium.
Su questa esile soglia (un confine che è anche, nondimeno, un'interfaccia) fra il nostro mondo e un altro mondo visibile solo alla fotocamera, si verifica l'apparizione di una dimensione parallela; in un'immagine possiamo udire le voci degli oggetti.
Fotografare significa avere eyes wide shut (lett.: occhi aperti-chiusi, o apertamente chiusi).

L'atto di orientare la propria attenzione, del focalizzare il proprio sguardo con l'osservazione, e i correlati emozionali di questi atti possono essere tradotti in macchie di bianchi e di neri, in contrasti reciproci. Il risultato è una mappa di aree ciascuna delle quali possiede un suo proprio "peso", tale che il loro assemblaggio sia come un discorso formato da numerose parti tutte riferentesi le une alle altre.
Per questo un'immagine non abbisogna di imitare ciò che erroneamente chiamiamo "realtà". Sarebbe del resto terribilmente noioso averne un doppio tal quale. Esiste solo una costruzione che dà senso ad un'altra costruzione, che sicuramente ha senso.

Tre idee

Penso che vi siano principalmente tre tipi di fotografia, tre approcci nello scattare una foto (il che significa tre modi di dare senso alla realtà):
  1. Analitico/sintetico: il primo è il più comune tipo di fotografia: è molto usato ad esempio in architettura, nelle cartoline, etc. Fornisce una descrizione di una parte del mondo vista attraverso un mirino. Il secondo appartiene spesso al fotogiornalismo, quando cioè un fotoreporter ha bisogno di convogliare all'interno di una singola immagine il senso di un contesto complesso. In entrambi i casi non viene però fornita alcuna informazione al di fuori di ciò che sta accadendo, o che si trova lì, nel mondo stesso.
  2. Organico: è organica l'immagine creata, inventata. Quando manca un fondale, una quinta, o non c'è scena. Non c'è azione reale, e il racconto è quindi del tutto arbitrario. Per esempio gli oggetti vengono ritratti separatamente e quindi assemblati in postproduzione. In tal caso la mente creativa può esercitare un potere assoluto nel costruire una realtà artificiale, e -scegliendo ciascun elemento della scena, come in un quadro- li collega gli uni agli altri. Non c'è niente di "intromesso", e perciò tutto è pregno di senso e coerente col tutto, essendo stato creato dalla mente.
  3. Diagnostico: un'immagine è correlata a ciò che essa rappresenta (o almeno diamolo per buono); potremmo affermare quindi che un'immagine sia il senso di una rappresentazione. Però anche una rappresentazione è legata a ciò che rappresenta, come un discorso ad un concetto. Ma cos'è la realtà in se stessa? Da cosa dipende? Generalmente la fotografia manca di una dimensione temporale intrinseca, a differenza del cinema: cosa c'è prima e dopo il momento in cui uno scatto viene fissato? Da dove viene il suo soggetto, e verso dove va? Questo è il nodo problematico di una scena, ed è il tentativo più difficile di catturare lo "spirito" delle cose dalle quali siamo circondati. Fare una diagnosi della realtà non equivale al descriverla (questo passaggio è implicito nell'anamnesi, la risposta alla domanda "da dove viene la realtà?"). Diagnosticare la realtà significa muoversi, come nella pratica medica, dal passato al futuro, dal manifesto all'invisibile. Ma ancora la diagnosi è un particolare tipo di descrizione: non è il modo in cui le cose sembrano essere (non investe il piano della rappresentazione), ma il modo in cui sono realmente in se stesse. Il protocollo medico consistente nella sequenza anamnesi-diagnosi-prognosi coincide con la pratica investigativa: da una varietà di elementi sparsi l'investigatore ricostruisce la trama della realtà, le dinamiche degli eventi, etc., in modo tale da essere in grado di parlare di ciò che egli non può vedere o conoscere perché non era presente lì quando i fatti si sono verificati, non essendo né la vittima né l'assassino. La fotografia diagnostica dovrebbe trasmettere attraverso le immagini ciò che rimane celato, ciò che le cose nascondono come un segreto. E' legata alla realtà ma non coincide con essa né la rappresenta affatto. La fotografia diagnostica riguarda il senso dell'esistenza di un soggetto attraverso lo scorrere del tempo, e getta un raggio di luce su ciò che gli occhi umani non possono vedere.

martedì 22 gennaio 2008

PI: Italia.it è morto così

PI: Italia.it è morto così

Con queste parole Berlusconi, quando era Premier, si espresse nei confronti del Logo del portale Italia.it, che è miseramente fallito dopo aver ingurgitato oltre 40 milioni di euro, vero simbolo dell'Italia che non va:
"Si esprime in modo unico e riconoscibile - aveva dichiarato il premier - Un simbolo, una grafica, un'immagine. Devo dire che io sentivo fortemente la necessità di avere questo punto grafico che potesse riprodurre, e accompagnarsi, al segno dell'Italia". Parlava del cetriolone verde di quel logo come di "una grandissima occasione, un grandissimo strumento di riferimento".

Ma stiamo fuori?

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